Proposta Radicale 1 2022
5

Recensioni

Un’idea di libertà. Il Partito Radicale nella storia d’Italia
(1962-1988)

>>>

Sciascia e una passione chiamata cinema

>>>

La passione per la libertà

>>>

Intrighi, amori, potere, omicidi ne il conte di Racalmuto

>>>

No. L’opposizione di uno

>>>
Un’idea di libertà. Il Partito Radicale nella storia d’Italia (1962-1988)

Un’idea di libertà. Il Partito Radicale nella storia d’Italia
(1962-1988)

È il libro che si attendeva da tempo. In questi anni non sono mancati monografie e studi su Marco Pannella e il Partito Radicale; e non privi valore e utili per conoscere e comprendere il fenomeno, più unico che raro, di un leader e un’organizzazione politica che tanto, e in profondità, hanno inciso nella storia recente di questo Paese. Ma spesso si tratta di libri scritti da persone che hanno vissuto in prima persona i fatti raccontati e descritti: perciò stessi privi del necessario distacco e della “serenità” che deve essere la caratteristica di uno storico degno di questo nome. Memorialistica, degna del massimo rispetto, ma “materiale” da utilizzare per un più ampio e completo lavoro.

La lacuna viene ora colmata da Lucia Bonfreschi, giovane ma già con un più che rispettabile curriculum: dottore di ricerca in Storia politica dell’età contemporanea, ricercatrice indipendente; insegna in diverse università e svolge attività di ricerca presso istituzioni italiane ed estere. Il suo campo particolare è la storia dell’Europa nel XX secolo, al suo attivo numerosi saggi, tra cui “Raymond Aron e il gollismo 1940-1969”; e ora questo “Un’idea di libertà. Il Partito Radicale nella storia d’Italia, 1962-1988”. Con pazienza e acribia Bonfreschi ha frugato in archivi, fondi, colloquiato a lungo con testimoni e protagonisti: dalle loro esperienze ha saputo estrarne preziose gemme che ha trasformato in un fluido “racconto” che coniuga il rigore scientifico dello storico alla non comune espositiva. Per dare un’idea: chi scrive ha voluto con un certo accanimento trovare qualche imperfezione o “errore”. Ebbene, ne ha trovato uno solo: a pagina 211 si cita il CISA, specificando che si tratterebbe del “Centro italiano sterilizzazione e aborto”. In realtà quella “I” sta per “informazioni”. Sempre nella stessa pagina, in una prossima riedizione che ci si augura a breve, si consiglia di aggiungere una riga: gli arresti di Firenze, dell’allora segretario radicale Gianfranco Spadaccia, di Emma Bonino e Adele Faccio animatrici del CISA e del dottor Giorgio Conciani, partirono da una denuncia a stampa: il settimanale “Candido”, diretto dal senatore missino Giorgio Pisanò, raccolta dalla procura di Firenze. Il magistrato che si occupò della vicenda, Piercarlo Casini deposta la toga, diventerà esponente del Movimento per la Vita, più volte deputato eletto dalla Democrazia Cristiana. Si citano questi due “nei” per confermare la serietà di un lavoro favorito certo dalla disponibilità di molti radicali, ma comunque difficile e improbo: è leggendario il disordine e la “noncuranza” dei radicali per il loro patrimonio politico, culturale e ideale, solo negli ultimi anni, e la dispersione (e smarrimento) di preziosa documentazione. Solo ultimamente grazie alla “Radio Radicale” esiste una straordinaria “biblioteca”, ma si tratta di “documenti” sonori e visivi. I materiali scritti sono ancora dispersi in archivi privati, quando lo sono.

Peccato che Marco Pannella non abbia potuto vedere questo libro. È sempre bene non dire cosa avrebbe detto o fatto chi non c’è più, ma si può azzardare che questo lavoro gli sarebbe piaciuto, ne avrebbe fatto “volantinaggio”. È la storia di un leader, ma anche di un collettivo, di un gruppo che si fa classe dirigente senza mai assumere postazioni di potere, la cui forza consiste nella capacità di “dialogo” e persuasione: “armato” di nonviolenza, diritto, ostinazione, capacità di ascolto e “visione”; che ha sempre avuto prestigiosi sostenitori, preziosi alleati, pochi voti e consensi elettorali; e tuttavia ha “marcato” più stagioni politiche. Bonfreschi, a differenza di molti osservatori superficiali e/o interessati, coglie un elemento importante: “Certamente il volume intende essere la ricostruzione della parabola politica del leader. Eppure, il PR non fu solo Pannella, così come il PCI non fu solo la sua macchina organizzativa. Una delle intenzioni del volume è quella di mostrare quanto questa identificazione fosse in realtà anche il frutto di battaglie interne ed esterne, di dissensi e critiche. Ancor più, il libro intende mostrare come al di là del leader vi fosse una cultura politica, un nucleo di ‘compagni’ del leader, gruppi di militanti che non solo influenzavano, ma diffondevano, davano spessore alla strategia e all’azione del leader. Anche perché il partito era per lo stesso leader essenziale: la sua azione politica non poteva prescinderne, non solo perché il partito era l’organizzazione per affrontare le condizioni concrete della vita politica italiana, ma più specificamente perché nella cultura politica radicale la società si esprimeva attraverso i partiti, non attraverso leader e – almeno fino agli anni ottanta – il partito libertario era strumento di legittimazione dell’azione politica di Pannella”.

Politici di altri tempi, speriamo futuri, si augurava Pannella, che poi aggiungeva: “Siamo diventati radicali perché ritenevamo di avere delle insuperabili solitudini e diversità rispetto alla gente, e quindi una sete alternativa profonda, più dura, più ‘radicale’ di altri. E questa è la differenza che prima o poi, speriamo non troppo tardi, si dovrà comprendere”.

Fin da quel 19 maggio del 2016 quando è morto, Pannella ha lasciato un grande, incolmabile vuoto; e giorno dopo giorno se ne prende coscienza, consapevolezza: le sue intuizioni, i suoi moniti, le sue “visioni” sono quanto di più attuale e concreto. Il libro di Bonfreschi aiuta chi quei giorni non li ha vissuti direttamente, a comprendere; libro insomma, di “conoscenza”. Libro, come si è detto, lungamente atteso e ora per fortuna, eccolo…

Lucia Bonfreschi, “Un’idea di libertà”.

Il partito radicale nella storia d’Italia, 1962-1988”, Marsilio

Sciascia e una passione chiamata cinema

Sciascia e una passione chiamata cinema

Sono in quattro, a Enna, l’unica provincia siciliana che non si affaccia sul mare, tutti appassionati di cinema: Guido Aristarco, Antonio Maddeo, Leonardo Sciascia, Liborio Termine; è il 1969, fondano il “Centro Studi Cinematografici”; l’attività principale del Centro è il cosiddetto “cinema di piazza”: proiezioni nelle piazze dei piccoli centri della provincia e in seguito stimolare e discussioni tra gli spettatori, per lo più contadini e zolfatari.

Sciascia e il cinema: un rapporto di amore, ma anche diffidenza, coinvolgimento e distacco insieme. Lui stesso racconta che da giovane frequenta moltissimo le sale cinematografiche: cinema come “il luogo dell’emozione: come tale, confinato nell’infanzia e nell’adolescenza, territori delle emozioni per eccellenza”. Indelebili impressioni, volti che s’imprimono nella memoria: Jack Holt appare nello schermo del teatro comunale di Racalmuto adibito a sala cinematografica, in un lontano 1929; o la “maschera” di Ivan Mosjouskine, interprete del  “Il fu Mattia Pascal” di Marcel L’Herbier.

A dodici anni “scopre” il sonoro: in occasione del suo primo viaggio a Palermo nel 1933: “Entrando nella sala ne ebbi un senso di frastornazione, di stordimento, addirittura non capivo. A capirlo, restai a vedere il film per la seconda volta. Era Il segno della croce, mi piacque moltissimo: ma più mi piaceva tornare a vedere, al mio paese, i vecchi film muti”.

“Il segno della croce” di Cecil B. De Mille è un drammone storico tratto da un romanzo di Wilson Barrett, ambientato nella Roma del 64 d. C.: Fredric March è il prefetto di Roma Marco Superbo, Elissa Landi Marzia, giovane martire cristiana, Claudette Colbert Poppea, Charles Laughton Nerone. Forse è la versione originale, non censurata, con la “scandalosa” Claudette che s’immerge nuda in una vasca colma di vero latte d’asina.

Il cinema ha una grande importanza nella sua formazione intellettuale; studente a Caltanissetta, vede un film uno al giorno, a volte anche due. Ogni anno riempie un libretto di annotazioni su quelli visti: “Avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta anni dopo, è che Gesualdo Bufalino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa”.

Ama i “noir” francesi degli anni ‘30, il “realismo poetico” di Jean Rénoir e Marcel Carné; film come “La grande illusione” (è tra il suoi preferiti), “L’angelo del male”, “Alba tragica”, “Il porto delle nebbie”: storie dove emerge la fatalità del destino umano in un contesto di ingiustizie e di emarginazione rappresentato spesso da eroi solitari e maledetti, come quelli interpretati da Jean Gabin.

L’amico di sempre, il poeta Stefano Vilardo, ricorda che da ragazzi, Sciascia e lui maturano l’idea di fare cinema e non solo come spettatori. Aspirazione, che tale resta. Sciascia partecipa alla sceneggiatura di “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato” di Florestano Vancini nel 1971; per il resto, rifiuta di intervenire nella sceneggiatura dei tanti film ricavati dalle sue opere: teorizza l’indipendenza delle sue opere dai film ricavati: anche se il cinema ha sempre grande attenzione per la sua opera, lui teorizza che film e letteratura sono mondi separati, di difficile comunicazione. 

I primi registi a cimentarsi con il “mondo” sciasciano sono Elio Petri (“A ciascuno il suo”, 1967) e Damiano Damiani (“Il giorno della civetta”, 1968): entrambi con sfondo la mafia siciliana. Nel 1976 è la volta di Francesco Rosi, con “Cadaveri eccellenti”, ispirato da “Il contesto”; il  filone mafioso “scivola” sul giallo fantapolitico. È lo stesso anno di “Todo modo”, ancora di Petri.  Una filmografia che va da “Grand Hotel des Palmes” di Memè Perlini (liberamente tratto da “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”), a “Candido” di Roberto Guicciardini; da “Porte aperte” di Gianni Amelio, a “Il consiglio d’Egitto” e  “Una storia semplice”, di Emidio Greco.

Il cinema non si interessa a Sciascia solo per i temi trattati. È anche questione di “forma”: per Rosi raccontando “fatti” Sciascia si preoccupa di analizzarli: “Cerca di mettere in relazione cause ed effetti: questo appartiene molto al linguaggio cinematografico”. Lo stesso Sciascia dichiara: “I miei libri sono già sceneggiature. Nei miei anni giovanili sono stato uno spettatore appassionato: la tecnica del cinema ha influito molto su quella del racconto scritto”. Italo Calvino, editor per Einaudi, dopo aver letto il manoscritto del «Giorno della civetta», gli scrive: “Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario su di un problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più”

Il nipote Fabrizio Catalano, autore e regista teatrale, racconta che il nonno è tentato dalla proposta di Sergio Leone: scrivere insieme il copione di “C’era una volta in America”. Qualcosa però non ingrana. Sciascia e Leone si incontrano a Palermo. Leone ha modi  bruschi che non garbano a Sciascia; lo scrittore Vincenzo Consolo, presente all’incontro, racconta che Sciascia si fa scuro in volto, praticamente non apre bocca, appena può si congeda. Chissà cosa ne sarebbe potuto venir fuori se i due si fossero intesi. E chissà a che risultati si sarebbe approdati, se Sciascia avesse sceneggiato, come gli propone il regista Enzo Muzii, “I sotterranei del Vaticano”, di André Gide. 

Ci sono una quantità di aneddoti gustosi, storie, informazioni in “Sciascia e il cinema”, la bella conversazione tra il nipote Fabrizio Catalano e Vincenzo Aronica. Fabrizio è regista, drammaturgo, scrittore. Aronica, “complice” e amico da dieci e più anni organizza eventi culturali sempre nell’ambito della cinematografia. Non mancano gli episodi surreali. Per esempio quello che racconta il regista Roberto Andò. A Cinecittà, un giorno, Sciascia va a trovare Federico Fellini. Sciascia deve andare in bagno. In quel locale c’è anche il regista Ingmar Bergman. Racconta Andò: “Bergman parla in inglese, lingua che Sciascia non conosce, per cui si limita a sorridere. Mi sono sempre immaginato questa scena: Bergman e Sciascia che non possono comunicare, ma che si ritrovano a contatto d’occhi mentre stanno facendo pipì! Una scena sublime, inimmaginabile…”.

Il volume è un prezioso peregrinare tra ricordi e riflessioni, analisi critica e ritratti dal “vivo”. Un assaggio di quello che aspetta il lettore di questa lunga e bella conversazione, è in due frasi. La prima di Antoine de Saint-Exupéry, Sciascia la sceglie per “presentare” per una mostra di scrittori: “Non bisogna imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza”. La seconda citazione è di Sciascia: “Le immagini bisogna saperle leggere, uno dei guai del nostro tempo, e forse il più grande, è di essersi votato alle immagini, dimenticando la lettura”.

Fabrizio Catalano e Vincenzo Aronica (a cura),

“Sciascia e il cinema”, Rubbettino

La passione per la libertà

La passione per la libertà

Pier Franco Quaglieni, storico, saggista, liberale “doc” fin dai tempi in cui il termine procurava emarginazione e diffidenza, fondatore con Arrigo Olivetti e Mario Soldati del «Centro Mario Pannunzio» di cui è infaticabile animatore, raccoglie in «La passione per la libertà» riflessioni e ricordi di una vita intera; Libro prezioso che senza riverenze e ipocrisie in pagine che possono risultare scomode affronta non poche questioni che si ha timore di affrontare. Pagine dedicate ad Alfredo Frassati e Philippe Daverio; e a Ottavio Missoni, Massimo Mila, Giampaolo Pansa, Guido Ceronetti, Nicola Matteucci, Federico Chabod, Vittorio Mathieu e molti altri. Personaggi che hanno dato molto a questo paese e di cui, tuttavia, si rischia di smarrire memoria. Quaglieni conosce molti dei protagonisti del libro; li frequenta, ha relazioni amicali, li stima; tuttavia i suoi ritratti non sono acriticamente compiacenti. Le descrizioni raccontano il tanto di positivo di questi protagonisti; ma da buon allievo della scuola di Chabod, non risparmia, quando è il caso, critiche e segnala lacune ed errori: fedele all’amicus plato sed magis amica veritas.

Un volume in cinque parti: «Profili»; «Memoria storica»; «Istantanee»; «Sull’onda dei ricordi»; «La libertà responsabile». Si ricostruiscono alcuni episodi scomodi della recente storia d’Italia: l’attentato a via Rasella, cui fa seguito l’eccidio alle Fosse Ardeatine; la tragedia delle Foibe; il delitto di Giovanni Gentile ad opera dei partigiani comunisti, gli omicidi del Triangolo Rosso; il fascismo di certo antifascismo; il terrorismo che tanti non hanno voluto vedere e capire…Non mancano pagine dolenti; per esempio quando, desolato, vede che sulla tomba di Gentile, in Santa Croce a Firenze (ma in posizione secondaria), qualcuno per spregio, ha posato un aspirapolvere e oggetti per la pulizia.

Il tutto in un’ottica di militante rigoroso antifascista e anticomunista insieme: mestiere difficile e ingrato: lo si esercita in quasi solitudine, quello del liberale nel senso più alto e pieno del termine. Quaglieni è attento custode di un liberalismo coltivato con acribia, ben definito da Matteucci: «Il liberale vero è sempre insoddisfatto della storia in nome del valore della libertà. Progetta senza illusioni guardando al futuro, già sapendo che i suoi progetti non si realizzeranno mai completamente».

Il suo è un colloquiare fermo e pacato, mai fazioso, scevro da ideologia. È anche qui la chiave del sostanziale boicottaggio del libro? Si trattano argomenti che tanti non vogliono mettere in discussione. Sì: Quaglieni è colpevole: ha una naturale allergia per le mille ubbie di cui siamo ancora preda; con limpida onestà intellettuale redige testi controcorrente: «che non si piegano al conformismo imperante». Ha ben assimilato le lezioni di alcuni suoi maestri: Raimondo Luraghi, Rosario Romeo, Franco Venturi. L’apparente indifferenza e la sostanziale ostilità che suscita sono, a ben pensarci, la migliore recensione.

Pier Franco Quaglieni,

“La passione per la libertà”, Buendia Books editore.

Intrighi, amori, potere, omicidi ne il conte di racalmuto

Intrighi, amori, potere, omicidi ne il conte di Racalmuto

Castelli Medievali di Sicilia – guida agli itinerari castellani dell’isola” spiega che la fortezza risale al tempo della baronia di Roberto Malcovenant, un francese venuto in Sicilia con il re normanno Ruggero; un massiccio edificio a pianta pentagonale, “ubicato nel cuore del centro storico di Racalmuto, quasi all’estremo limite orientale dell’odierno…”. Dopo la morte di Federico II (1311), baronia e castello passano alla famiglia d. Il castello c’è ancora, anche con gli anni, trasformato in struttura residenziale, se ne è stravolto il carattere monumentale. Questo per il luogo. I protagonisti, ora: Girolamo II del Carretto. Un accenno di Leonardo Sciascia ne “Le parrocchie di Regalpetra”: “Nella chiesa del Carmine c’è un massiccio sarcofago di granito…Vi riposa l’ill.mo don Girolamo del Carretto, conte di questa terra, che morì ucciso da un servo a casa sua, il 6 maggio 1622”. Si affaccia al balcone, il conte. Un servo, Antonio di Vita, facendoglisi da presso, l’assassinò con un colpo d’armi da fuoco. Delitto su commissione, vendetta? O c’è altro: una tresca amorosa? “Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al servo e lo nascose, affermando con più che cristiano buonsenso che ‘la morte del servo non ritorna in vita il padrone’…”. Chiosa Sciascia: “…Ora chiaramente traluce ed arride, in questo epilogo, l’allusione a un conte del Carretto cornuto e scoppettato…”.

Un secondo protagonista è un pittore di un certo peso nella storia dell’arte in Sicilia, Piero D’Asaro; si firma “Monoculus Racalmutensis”. Un occhio solo capace di cogliere luci e ombre al pari di Caravaggio: “Con un solo occhio faceva quello che gli altri facevano con due”, annota Sciascia. Nato nel 1579 a Racalmuto, D’Asaro, fascinoso dongiovanni, soggiorna nelle più importanti città italiane: Napoli, Roma, Genova, Milano. Poi torna in Sicilia. “Virtuoso disegnatore” lo definisce nel 1788 Padre Fedele da S. Biagio, lui pure pittore e letterato. Per Sciascia, “nella storia della Sicilia, l’orbo di Racalmuto merita un posto privilegiato…pittore che non ci si può permettere il lusso di ignorare”. Nel Duomo si conserva un suo autoritratto: ironico, misterioso; bella storia anche questa: lo trova, per caso negli anni ’50, in un vecchio armadio in sagrestia, un cappellano appassionato di arte e poesia, don Alfonso Puma.

Ci sono poi Beatrice, moglie del conte: esasperata per la convivenza forzata con un marito che detesta, è sensibile alle attenzioni del pittore; e il giovane Antonio: rabbioso, perché il conte vuole esercitare lo ius primae noctis nei confronti di Nunzia, la promessa sposa. Questi gli ingredienti di base de “Il conte di Racalmuto”, quinto romanzo di Vito Catalano, di Sciascia degno nipote: lui e il fratello Fabrizio, scrittore e regista, dimostrano che “buon sangue non mente”. In due libri, il già citato “Le parrocchie di Regalpetra” e in “Morte dell’inquisitore”, Sciascia parla, sia pure brevemente, di questo delitto; una storia dove evidenti sono echi e suggestioni manzoniane… Come una borgesiana spirale: una linea che si avvolge su se stessa, si lega a concetti di eterno ritorno e di ciclicità del tutto: riunisce il “molteplice” con l’“unità”. In fin dei conti Antonio è un Renzo Tramaglino che non si piega al sopruso; Girolamo del Carretto un don Rodrigo di Sicilia; il monaco Evodiosta al frate Cristoforo; Caterina richiama la sventurata monaca di Monza, anche se il suo è un epilogo meno tragico, s’intravede un (per lei) lieto fine.

Il conte di Racalmuto” è un “gioco” tra storia e invenzione: Catalano intreccia episodi e personaggi di immaginazione e li combina con l’avvenuto omicidio del conte. Nella nota finale spiega che costruire tutta la storia, è stato “un divertimento che portava con sé l’emozione del ricordo: volti custoditi nella memoria riaffioravano mentre mi muovevo con l’immaginazione in uno scenario familiare”. Il filo della memoria, dunque: i racconti ascoltati dall’amico Patito, che a sua volta riprende quelli tramandati oralmente per generazioni, in paese. Romanzo a sfondo storico, genere che Catalano predilige: “Quelle storie mi piacciono e credo che infine si scrive quello che piace leggere”.

Al di là della vicenda, è una sorta di apologo, una metafora: non c’è un personaggio completamente positivo; anche i “buoni” hanno lati perlomeno contraddittori, “scuri”, per questo reali; la cifra del racconto è l’ambiguità. Il tema ricorrente è l’ingiustizia commessa da chi detiene il potere e opprime: “Non di rado la mattina nelle strade del paese veniva ritrovato il corpo di un morto ammazzato: a volte la gente si chiedeva il perché, altre volte le ragioni del delitto erano chiare a tutti…”. Echi, rimandi, atmosfere non solo siciliane. Non solo del Seicento…

Vito Catalano,

“Il conte di Racalmuto”, Vallecchi

No. L’opposizione di uno

No. L’opposizione di uno

Grazie a “Radio Radicale” da anni i cittadini possono ascoltare gli interventi dei parlamentari nelle aule di Senato e Camera dei Deputati e valutarne la qualità, senza filtri e integralmente. Spesso si tratta di interventi che lasciano perplessi, per le forme e i contenuti. Ma ci sono discorsi, interventi per i quali non è esagerata l’invocazione di un tempo: “Pubblicazione, pubblicazione”. Non molti, ma ce ne sono. Ci sono stati grandi dibattiti parlamentari, che meritano di essere studiati, meditati. E leader che esprimevano il loro rispetto verso le istituzioni anche con la cura dedicata ai loro discorsi. Penso a numerosi interventi parlamentari di Marco Pannella, anche se la forma scritta non sempre rende il fascino che esercita l’ascolto. Penso a due volumi che raccolgono i rarefatti interventi parlamentari di Leonardo Sciascia: “Un onorevole siciliano”, pubblicato anni fa da Bompiani; e “Sciascia, un guastafeste a Montecitorio”, curato da Lanfranco Palazzolo per Kaos edizioni.

Non sfigura, tra questi volumi la recente raccolta “No, l’opposizione di uno” di un amico da sempre, Furio Colombo. Ha fatto e continua a fare tante cose, Furio; e molte volte le sue strade si sono incrociate con le nostre; non solo negli anni trascorsi alla Camera dei Deputati e al Senato; non solo perché da scrittore e giornalista ha spesso sostenuto le nostre iniziative politiche. Ci sono stati incontri che a prima vista non ti aspetti, a cavallo con la cultura e l’impegno politico. Per esempio, la direzione della rivista “L’architettura. Cronaca e storia”, fondata da Bruno Zevi; o l’incontro con Aldo Loris Rossi, amico e allievo di Zevi e di Luigi Piccinato. È di Furio la prefazione al volume “Progetto per Napoli metropolitana, dalla Terra dei fuochi a Eco-Neapolis”, che il neosindaco Gaetano Manfredi farebbe bene ad almeno sfogliare. Furio è stato sia deputato che senatore; tre legislature. A lui dobbiamo la legge che istituisce il Giorno della Memoria per la Shoah.

Questo ultimo libro di Furio, questo “NO” gridato, con il sottotitolo “L’opposizione di uno” pubblicato da La Nave di Teseo, è una sorta di diario parlamentare, per non dimenticare quello che in nome del popolo italiano si è fatto: su temi e questioni più che mai aperte: i migranti, il dovere a un’accoglienza che sia tale; le aggressioni di matrice razzista; le campagne anti-rom. La certificazione che non sempre sappiamo essere “italiani brava gente”; come in occasione del cosiddetto “Patto di amicizia fraterna e perenne fra la Libia di Gheddafi e l’Italia”.

Nella quarta di copertina si legge che “Colombo è stato il solo deputato a votare “NO”. Nella nota introduttiva, Furio scrive che il patto “è stato approvato all’unanimità, meno i voti dei deputati Colombo e Sarubbi”. In realtà, come documentano gli interventi del 19 e del 21 gennaio 2009, anche la pattuglia dei parlamentari del Partito Radicale, ha detto i suoi sonori NO. Ma questi sono incisi.

La carne del discorso è in due interrogativi: “Come ha potuto il Parlamento avere un’immagine così misera di se stesso e del suo mandato e lasciarsi governare giorno per giorno, atto spregevole per atto spregevole, dalle comparse che hanno svolto impropriamente e a volte fino all’incriminazione, o fino al ridicolo, la parte di ‘ministri’?”. Secondo interrogativo: “Come hanno potuto leader politici dell’opposizione, della sinistra, essere talmente privi di istinto politico, cadere nella trappola, lasciarsi tagliare le vie d’uscita per restare in contatto con un paese disperato e umiliato?”.

Sono interrogativi cruciali, ancora oggi rimasti senza risposta. Fino a quando questi nodi non tenteremo almeno di scioglierli, indifferenza e apatia, sfiducia e ostilità che si esprimono con l’astensione ogni volta che siamo chiamati a votare, sono destinati ad aumentare.

Vito Catalano,

“Il conte di Racalmuto”, Vallecchi

iMagz